Nell’ultimo periodo mi sono reso conto di aver visto un sacco di film in cui il protagonista è anche il narratore della storia. Fin dal primo momento rompe la quarta parete e tedia gli spettatori con qualche aneddoto che introduce quel che sta per raccontare. C’è questo piccolo capolavoro di genere (un flop al botteghino, ovviamente) che si intitola Kiss Kiss Bang Bang, con un Robert Downey Jr. In grande spolvero nonostante non avesse ancora indossato l’armatura di Iron Man per la prima volta.

E se in questo film Downey Jr. torna al cinema dopo il carcere e la riabilitazione, c’è un altro redivivo di Hollywood dietro la macchina da presa: è Shane Black, lo sceneggiatore passato alla storia per aver scritto in sole sei settimane Arma Letale. Quel che mi preme dirvi è che Black è una bella persona perché è stato il regista anche di Iron Man 3, che considero uno dei film più personali e coraggiosi dei Marvel Studios. Anche in questo caso, è Tony Stark a introdurci nella storia con una delle più belle frasi d’apertura mai sentite sul grande schermo: “Un uomo famoso una volta disse: noi creiamo i nostri demoni. Chi l'ha detto, che cosa voglio dire? Non importa, io lo dico perché l'ha detto lui”.
Insomma, avete capito: datemi un film in cui c’è un monologo iniziale e sarò vostro per almeno un’ora e mezza.

Ora, vorrei saper fare anch’io qualche battuta sagace sulla situazione attuale, o agganciarmi in maniera pirotecnica a quel che sto per raccontarvi. Ma non lo so fare, perché la mia ironia non fa così ridere. Quindi posso fare due cose per introdurvi a questa storia.
La prima è dirvi che bisogna fare attenzione ai particolari: si parla ancora di sport e cultura pop ma in questo caso fin proprio alla fine sembra che le strade non possano incrociarsi. La differenza, come al solito, la fanno i dettagli: in questo caso, quel che conserviamo in camera da letto.
La seconda, è una domanda: se poteste tenere un solo libro sul vostro comodino, quale sarebbe?
È un pomeriggio assolato a Los Angeles, un giorno uguale a tutti gli altri per chi non ha niente. Prima delle donne, prima del successo, c’erano l’alcol e i brutti sogni. È con i postumi dell’ultima sbronza che Charles Bukowski entra nella biblioteca civica, in cerca di qualcosa che dia un senso a quella giornata.
Scorre gli scaffali, mette le mani su molti volumi, ne apre qualcuno e butta gli occhi stanchi e gonfi su qualche pagina. Niente, nessuna vibrazione. S’imbatte poi in questo romanzo di un italo americano dal nome buffo, John Fante. Bukowski non sa niente dell’autore di Chiedi alla Polvere, il romanzo che tiene fra le mani. Nel primo paragrafo fa la conoscenza di Arturo Bandini, il protagonista di molte delle storie di Fante. Alla fine del capitolo ha deciso: Fante è suo amico.

Chiede alla biblioteca di rintracciare tutti i volumi scritti da lui. Si aspetta una produzione mastodontica, degna di un maestro della letteratura, ma quel che riceve è una lista limitata a un paio di volumi. Il mistero s’infittisce. Torna nella sua stanza, il romanzo di Fante sottobraccio, a interrogarsi sulla sorte di quell’italo americano capace di stritolarti le palle in una manciata di pagine che sembra essere stato dimenticato.
Posa Chiedi alla Polvere accanto al letto, dove lo conserverà per anni, e spegne la luce.
Quello che Bukowski ancora non sa, è che molto prima che s’imbattesse in un suo romanzo, Fante era una delle promesse della letteratura americana. L’estate del 1939 sarebbe dovuta essere la stagione della sua consacrazione. Poco tempo prima aveva pubblicato il suo romanzo d’esordio Aspetta Primavera, Bandini e i suoi racconti riempivano le pagine delle più importanti riviste letterarie d’America. C’era chi lo metteva sullo stesso piano di John Steinbeck, chi era pronto a scommettere sul suo ingresso nel circolo dei grandi.
Quello di cui nessuno si era accorto è che in un mondo che stava cambiando pelle sembrava non esserci più posto per la scrittura disperata di Fante, per le speranze dei suoi personaggi emarginati, sconfitti e timorati di Dio. Le feste degli Anni Ruggenti erano finite da un pezzo e nella villa di Gatsby non restava altro che polvere.

Eric Cantona è sui telegiornali di tutta Inghilterra. Tutti ne parlano, tutti puntano il dito. Questa volta ha esagerato davvero, colpendo con un calcio volante un tifoso a bordo campo, dopo che questo gli ha urlato “Bastardo francese torna a casa tua”. Cantona, uno dei talenti più famosi e irosi del calcio mondiale, è tornato nella spirale che sembra avvolgere la sua carriera.
Il suo carattere spigoloso ed estremo ha sempre fatto a pugni con il suo talento sproporzionato. Ha l’attitudine del protagonista di un romanzo di formazione, intrappolato nelle sue contraddizioni. Ha dato del “sacco di merda” all’allenatore della sua Nazionale, ha litigato con compagni e avversari. Dopo una serie di esperienze in Francia, a ventiquattro anni si ritira dal calcio giocato.
Interviene Michel Platini: gli parla, lo convince ad andare da uno psicologo. Cantona comincia a leggere libri di filosofia e romanzi per comprendere l’ira che gli deborda dall’animo. Ha bisogno di essere capito, quando lui stesso è il primo a non comprendersi. Sceglie l’Inghilterra, va al Leeds.
La sua fama lo precede, i giornalisti lo soprannominano “Le Brat”, il ragazzaccio. Arriva per sostituire l’infortunato Lee Chapman, deve dare un contributo tangibile nella corsa al titolo che vede il Leeds lottare con il Manchester United. Cantona gioca per la squadra, si mette in mostra. Il giorno in cui riscrive la sua storia è un tocco di talento assoluto, in una rotonda vittoria contro il Chelsea.
Entra in area di rigore con i difensori avversari addosso. Per liberarsene, compie una magia: controlla di destro, solleva il pallone quanto basta per disorientare l’avversario col sinistro e poi, dopo un altro tocco d’interno nello spazio di un fazzoletto, spara un missile sotto la traversa. Apre le braccia, il mondo è suo. Vince una storica Premier League, ma l’estate successiva il Leeds decide di venderlo proprio al Manchester United.
Cantona è legato ai tifosi del Leeds, ma sa che lo United è la curva decisiva della sua carriera. Può diventare immortale. Si prende la maglia numero 7, quella di George Best, un altro come lui.
Dopo una scorza di diffidenza iniziale, i tifosi dello United iniziarono ad amare Cantona. Il suo carattere burbero, lo sguardo sempre contrito, il colletto della maglia alzata erano tutti elementi identificativi per un popolo orgoglioso che non vinceva da troppo tempo. Il legame unico tra Cantona e i suoi tifosi viene raccontato meravigliosamente nel libro omonimo Cantona, scritto daDaniele Manusia. Nei suoi anni a Manchester ha vinto quattro campionati e una coppa d’Inghilterra. Non ha mai vinto il pallone d’oro e non ha vinto coppe europee con lo United: eppure, a distanza di oltre vent’anni anni, i tifosi a Old Trafford continuano a cantare cori per lui. Qualche tempo fa disse:
“Sono molto orgoglioso che i tifosi cantino ancora il mio nome allo stadio, ma ho paura che un domani loro si fermino. Ho paura perché lo amo. E ogni cosa che ami, hai paura di perderla”.

Quando viene pubblicato, Chiedi alla Polvere è un fallimento. Non raccoglie entusiasmi della critica, vende poco. Il pubblico è pronto a dimenticarsi dell’ennesima meteora della letteratura che ha toccato il cielo con un dito prima di precipitare nell’anonimato. È la caducità del successo, il quarto d’ora di Andy Warhol che giunge alla sua conclusione e se scavate bene troverete altre diecimila definizioni che descrivono il fallimento artistico, umano e sociale in tutte le sue forme.
Fante implode su se stesso perché si rende conto per la prima volta che potrebbe essere dimenticato. Si ricicla nel cinema, dove farà un’onesta carriera come sceneggiatore di film di serie B. Continuerà timidamente a scrivere, senza destare clamore. Sarebbe semplice appigliarsi alla cantilena del genio incompreso, dello scrittore all’avanguardia che non può essere capito dai contemporanei. Non è così.
In un altro dei miei film preferiti, che si chiama The Words, il protagonista è questo scrittore che non riesce a finire il suo primo romanzo. È interpretato da Bradley Cooper e ad un certo punto c’è una scena in cui si trova a Central Park intento a leggere Chiedi alla polvere.
Si siede accanto a lui un signore anziano che, una volta scoperto il titolo del romanzo, si meraviglia della scelta di Cooper, perché “nessuno conosce John Fante”. Tranne lui, ovviamente: e si mette a raccontare di quella volta in cui l’ha incontrato a Los Angeles chiosando con un melodrammatico “Sarebbe dovuto diventare molto più famoso”. Allora Cooper fa la domanda che ha tormentato anche Bukowski: “E di chi è la colpa?”. Dopo una pausa scenica, l’anziano risponde: “della vita”. Non vuol dire un granché, me ne rendo conto, ma tutt’oggi mi sembra l’ipotesi più plausibile.

Da quel primo incontro sono passati quindici anni. Bukowski è diventato uno degli scrittori più famosi al mondo, il suo nome è leggenda. In diverse interviste dichiara: “Fante è il mio Dio”. All’apice del successo, Bukowski ha dato un ultimatum alla sua casa editrice, la Black Sparrow: o si pubblica la bibliografia di Fante integrale o non avrete mai la copia del mio nuovo manoscritto.
È la scintilla definitiva. I suoi romanzi non ricevono un’ondata di celebrità, ma iniziano a girare negli ambienti underground. Fante, il cantore degli ultimi: parola di Charles Bukowski, cazzo.
Nel frattempo, un altro sceneggiatore di Hollywood è al lavoro su di un film di Roman Polanski, ambientato nella Los Angeles degli anni ’30. È un omaggio ai vecchi hard boiled di Raymond Chandler, si intitola Chinatown. Per costruire più fedelmente i dialoghi del film, Robert Towne si è immerso nella lettura di tutti gli autori che pubblicati in quegli anni e per uno strano caso si imbatte in una vecchia copia di Chiedi alla Polvere. Anche lui rimane attratto dalla penna di Fante e, finito il film, si mette alla ricerca di altri romanzi. Nel 1979 scrive sul Los Angeles Times una review di Chiedi alla Polvere, contribuendo alla sua rinascita.
Bukowski e Fante si incontrano quando Fante sta per morire. È cieco e ha perso le gambe per colpa del diabete. Con le ultime forze, ha dettato a sua moglie l’ultima avventura di Arturo Bandini, Sogni di Bunker Hill.

Esiste una linea nel tempo, o perlomeno nella mia testa, che unisce molti dei personaggi inconsueti di cui tutti, almeno una volta, ci siamo innamorati.
Leggendo il libro di Manusia, sono rimasto sbalordito dall’aver scoperto che nei suoi tempi in Inghilterra, Cantona teneva accanto al letto una copia di Chiedi alla Polvere. Non si spiega il perché, se per imparare l’inglese o perché anche lui, come Bukowski, si riconosce nel saliscendi emotivo di Arturo Bandini, l’anti-eroe, lo sconfitto.
Sono stato ossessionato per anni dalla storia di John Fante, dalla sua parabola di splendori e miserie comune a molti altri che ci hanno provato con fortune alterne. A voler essere onesto, mi sono affezionato a Fante perché non riuscivo a capirne il senso.
Fante è sopravvissuto al tempo solo grazie ai lettori che l’hanno continuato a cercare: chi l’ha scoperto a poco a poco si è affezionato a quel disperato di Bandini e ha lottato per tenerlo vivo. Ha scritto di cosa volesse dire essere un italiano d’America, del razzismo, di quanto è difficile levarsi di dosso affibbiarsi degli stereotipi e di quanto sia facile affibbiarne di nuovi. L’ha fatto perché quella era la sua vita e tutto ciò che aveva da dire.
Come Cantona, che non sarà mai considerato il più forte di tutti i tempi, ma sarà ricordato per l’amore della sua gente. Per quello che sapeva dare, per come dimostrava di essere fedele ai suoi ideali, qualsiasi essi fossero.
Se è vero che siamo quel che leggiamo, e se avete avuto il coraggio di arrivare fin proprio alla fine, Bandini ci ha regalato fuori dal tempo massimo un’altra grande storia.
Esiste un vecchio spot televisivo della Nike che riassume tutto questo. È una partita allegorica ambientata nel Colosseo in cui una squadra di campioni come il nostro Eric, Maldini e Ronaldo giocano contro il Male per salvare l’umanità. Uno sceneggiato assurdo. Il pallone decisivo per la vittoria viene affidato a Cantona: prima di tirare, si alza il colletto, sfodera il suo sguardo accigliato e con la strafottenza degna della pagina più esagerata dell’epopea di Bandini sussurra: “Au Revoir”: goal.
Questa era la vera storia di Bandini, una sbobinata di 13k caratteri. Se sei arrivato fino alla fine, scrivimi perché meriti un premio. E dimmi qual è il libro che terresti sul comodino, ovviamente.